Ecce Omnes
mostra personale
a cura di Marco Amore
dal 31 ottobre al 4 dicembre 2022
Jacopo Dimastrogiovanni
LA TRASFIGURAZIONE CONTROTEMPO
di Marco Amore
La selezione di opere presenti in mostra abbraccia due momenti della produzione
pittorica di Jacopo Dimastrogiovanni, artista ascrivibile al solco del ritorno al figurativo, con
un’attenzione particolare alla tradizione ritrattistica rinascimentale e barocca. In primo
luogo “Humanitas”, dove protagonista è il volto colto nell’attimo della trasfigurazione
interiore: la raffigurazione si deforma, distorce, sfibra, sulla scorta di un impulso
emotivo violento, incontrovertibile.
La trama materica della pelle, enfatizzata dall’applicazione di sottili strati di carta,
proietta all’esterno l’interiorità del ritratto – vi leggiamo inquietudine, ansia,
turbamento; a volte, un’imperscrutabilità dal sapore antico, o perfino una scintilla di
follia.
Immortalato in uno stato di vulnerabilità, il soggetto si lascia riconoscere, stabilendo
un rapporto visivo con l’osservatore che spinge quest’ultimo a discernere nel quadro
un’elaborazione delle proprie inquietudini: il classico meccanismo della proiezione
junghiana, sotteso a un processo di conoscenza tra l’Io e l’Ombra. Il che risulta ancora
più interessante in un momento storico dove è l’introiezione a tenere in scacco il mondo
occidentale: pensiamo al bombardamento pubblicitario che contraddistingue la civiltà
del libero consumo, il cui registro espressivo è entrato a pieno diritto nel linguaggio
dell’arte contemporanea.
Nel caso di Dimastrogiovanni, l’individuo non è contaminato da nient’altro che non
sia il proprio vissuto personale, rielaborato interiormente sotto forma di ferite emotive
che riaffiorano sulla superficie del volto. Una scelta che non tiene volutamente conto
del ruolo dell’interazione mediata, stentando a riconoscerne la centralità e rimandando
invece alla metafora lacaniana dello stadio dello specchio.
Lo specchio interiore, indispensabile a una visione di sé unitaria e definita, diventa però
specchio deformante, archetipo della metamorfosi, con la non trascurabile differenza
che qui non è il marchio del capriccio a disumanizzare le rappresentazioni, quanto uno
spettro di emozioni più vasto, concepito sulla base di processi conoscitivi complessi e
non di un impulso momentaneo.
Un altro elemento imprescindibile è il senso di sacralità trasmesso dalle immagini, non
a caso ho parlato di trasfigurazione dei volti: un termine soppesato con cura, che
rimanda a un episodio dei Vangeli in cui Cristo svela ai discepoli la propria natura
trascendentale, così come le opere rivelano la propria umanità nell’istante in cui
l’osservatore si abbandona alla contemplazione del dipinto; sacralità che si manifesta
in modo evidente in lavori come Sacrificium – Polittico di Marsia, dove la figura del
sileno, intrappolata nel formato tipico delle pale d’altare, richiama alla mente la
crocifissione di Gesù, gettando un ponte ideale tra il politeismo di epoca antica e il
cattolicesimo in età moderna.
Si delinea quindi un percorso fondato sulla dimensione corporea dell’esperienza
spirituale e la denuncia di quel bisogno tutto umano di attribuire un significato al dolore
della perdita; percorso che tradisce ulteriormente il proprio carattere sacrale prendendo
le mosse da due personaggi biblici, Adamo ed Eva, progenitori dell’umanità, peraltro
in un momento storico in cui la desacralizzazione della dimensione quotidiana, dettata
dal materialismo scientista e anti-dialogico, guarda all’evidenza empirica e al
deterministicamente verificabile. In questo contesto, Dimastrogiovanni torna ad
affrontare argomenti considerati superflui, sapendo che non sono stati risolti, bensì solo
accantonati, messi da parte, come un enigma di cui non ci è dato sapere la risposta, e
che l’uomo contemporaneo, prodigo di domande, ha scientemente e deliberatamente
ignorato, forse con l’intenzione di lasciare questo rompicapo per i posteri.
Qualcosa di completamente diverso si nasconde dietro “Iniuria & Furor”,
contraddistinto dal richiamo diretto, attraverso l’espediente dell’omaggio, ad alcuni dei
maggiori artisti del rinascimento italiano – Raffaello, Tintoretto, Rubens, Guercino,
Mantegna e Caroto – nonché da una riflessione sulla pratica del collezionismo di
curiosità (wunderkammer) risalente al Medioevo, in cui è possibile leggere, in filigrana,
una critica non troppo velata al sistema dell’arte contemporanea e al culto imperante
dell’oggetto-feticcio. Di conseguenza, sono due gli elementi attorno a cui si sviluppa
il nucleo del discorso pittorico: uno è il polittico “Iniuria”, realizzato come intima
reazione al clamoroso furto di 17 dipinti antichi dalle collezioni del Museo di
Castelvecchio a Verona la sera del 19 novembre 2015; il secondo è “Furor”, opera in
continuo divenire costruita sul fenomeno della cosiddetta camera delle meraviglie.
Qui, come asserito dallo stesso autore, gli elementi stilistici già presenti in “Humanitas”
assolvono a una duplice funzione simbolica: «attraverso la feroce deformazione
dell’iconografia dei capolavori rubati, i lavori provano a farsi testimonianza dello
sfregio patito, da intendersi sia come danno all’oggetto in sé, sia – e ancor più – come
oltraggio all’aura iconica e al valore di testimonianza culturale che quelle opere
indiscutibilmente posseggono.»
È curioso sentir parlare di «aura iconica» in un contesto dove da decenni si lamenta il
declino di quella stessa aura, il suo essersi smarrita nella profusione di immagini
tecnicamente riprodotte dalla nuova iconoclastia moderna che, come direbbe
Baudrillard, «non consiste più nel distruggere le immagini, ma nel fabbricarne una
profusione in cui non c’è niente da vedere1».
Forse è proprio questa consapevolezza ciò che spinge Dimastrogiovanni a ferire i suoi
soggetti a colpi di spatola e pennello, e poi a ripristinarne il valore semantico ricorrendo
all’applicazione di strati sottili di carta: le opere sono riproduzioni degli originali, alter
ego che entrano volutamente in contatto con la loro controparte storica, permeandosi
di contenuti inediti e aprendo un dialogo filosofico sulla funzione eternatrice dell’arte,
il suo andare al di là dello spazio e del tempo, rimanendo intatta nonostante i secoli e
le restaurazioni che ne ripristineranno la fruibilità, trasfigurando tuttavia l’essenza
dell’oggetto artistico.